Un interessantissimo articolo a cura del dott. Gabriele Santarelli, amico e allievo del CTCC su alcune possibili emozioni sperimentate in questo delicatissimo periodo.
Dal blog Circle Debates: https://circledebates.com/2020/03/16/il-senso-del-vuoto-angoscia-e-speranza-ai-tempi-del-covid-19/
Sono quasi un sentirsi postumi, questi giorni di sospensione e di attesa. Da fuori giungono notizie che parlano della necessità di difendere la nostra incolumità e la soglia di casa, un tempo principio delle nostre esistenze, diviene il termine della zona sicura, estremo limite di un ventre materno che sembra sempre più fragile e sempre meno capace di proteggerci. Dunque, siamo. Esistiamo. Non possiamo dire di più. Abbiamo lasciato le nostre vite in un angolo, come la valigia dell’attore in quella canzone di De Gregori, in attesa di recuperarle in tempi migliori, quando sarà di nuovo possibile abbracciarsi, come dice il Presidente del Consiglio nei discorsi televisivi, e sentiamo forse di aver smarrito la nostra individualità, ciò che ci consentiva di avanzare nel mondo con un volto diverso dagli altri, con un obiettivo diverso dagli altri, con un nostro senso che ci consentisse di avvertire la nostra unicità.
In questo tardivo ventre materno, tutto diviene nuovamente potenza. Tutto ciò che abbiamo realizzato è troppo lontano per essere raggiunto e dunque viviamo solo in potenza, una potenza che potrà attuarsi in futuro, forse, o forse mai – troppe le incognite, l’evolversi dell’epidemia, le condizioni economiche del Paese, il momento in cui finirà tutto (alcuni parlano di metà Aprile, altri dell’estate, altri non sanno o preferiscono tacere). Kimura Bin, nei suoi testi, parla dell’angoscia del vivere ante festum dello schizofrenico, che anticipa costantemente un pericolo che si potrà attualizzare in un futuro incerto, e di quella del vivere post festum del melancolico, smarrito nel ripercorrere ininterrottamente il passato, ricercandovi le proprie colpe e i propri errori. In fondo, in questo momento di stasi partecipiamo di entrambe le angosce. La festa della normalità della nostra esistenza è passata e la sua assenza lascia il vuoto che vive chi, come dice Masha all’inizio del Gabbiano, indossa il lutto per la propria vita, l’infelicità per un flusso che ha smesso di scorrere. Al tempo stesso, la festa per il recupero di tale normalità è lontana e il suo raggiungimento è minato da paure per ciò che potrebbe accadere fino ad allora.
Galleggiamo in attimi senza direzione ed è difficile sentire il movimento interno dell’esistenza, in questi giorni in cui il tempo è scandito solo dai decreti, dal telegiornale delle 20 che non porta mai buone notizie, dal silenzio di chi un tempo dava risposte. Le Chiese chiuse attendono una Pasqua silenziosa e ci si chiede se ci sarà davvero resurrezione, se davvero si potrà tornare a vivere come prima, come se nulla fosse accaduto.
Eppure, quasi insensibilmente, torniamo a muoverci. Torniamo a dare un significato a ciò che ci circonda, a ricostruire la nostra identità nel vuoto che ci ha invasi e dunque suoniamo alle finestre o decidiamo di non farlo, ironizziamo sull’inattività e ci sediamo di fronte a chi da tempo non riuscivamo più a incontrare e troviamo infine la possibilità di ascoltarlo, di raccontargli dove ci ha condotto nel frattempo la nostra storia e di apprendere la sua. Dopo il primo momento di sospensione e di vuoto, riorganizziamo il nostro senso includendovi la costrizione a rimanere a casa e forse a un certo punto diventerà questo nuovo senso la normalità, la festa di cui si parlava poc’anzi. Per ora, tocca costruire sul nulla, facendo nostra quella frase del muratore di Amarcord che dice “Mio nonno fava i mattoni, mio padre fava i mattoni, fazzo i mattoni anche me… Ma la casa mia dov’è?” E in questo ricostruire ripartiamo e si placa l’angoscia, perché, se vivere è costruirsi, in fondo abbiamo solo lasciato un cantiere più avanzato per un altro appena iniziato, sapendo che la nostra casa non sarà mai completa e sperando di arrivare ad Itaca, al compimento del senso e della costruzione, il più tardi possibile, come ci augura quella poesia di Kavafis.